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“Otis Blue”: il manifesto di Otis Redding, eterno dopo 60 anni

Il disco, uscito il 15 settembre 1965, suona tuttora urgente e necessario
“Otis Blue”: il manifesto di Otis Redding, eterno dopo 60 anni

Sessant’anni fa, il 15 settembre 1965, un album registrato in neanche due giornate a Memphis avrebbe cambiato per sempre la storia della musica soul. “Otis blue: Otis Redding sings soul” non fu soltanto il disco della consacrazione di Otis Redding, ma si impose come manifesto di un’epoca segnata da tensioni razziali, rivoluzioni culturali e cambiamenti sociali che cercavano nuove voci, nuove narrazioni e nuovi eroi popolari. Con la forza abrasiva della sua voce e con una selezione di brani che alternava originali e cover, Redding riuscì a conferire al soul una nuova urgenza, un senso di autenticità che ancora oggi risuona.

Non era certo la prima volta che Otis Redding affrontava il repertorio altrui: già nei suoi primi due album aveva reinterpretato, tra gli altri, “Stand by me” di Ben E. King o “Lucille” di Little Richard, senza però superarne la memoria collettiva. Ma con “Otis blue” il discorso cambiò radicalmente. La rilettura che Redding fece di “(I can’t get no) Satisfaction” dei Rolling Stones, ad esempio, non si limitò a un omaggio, e ne scardinò l’impalcatura rock per restituirla come un inno soul, pieno di fiati, groove e improvvisazione. "Ci sono molte parole diverse rispetto alla versione degli Stones”, affermò Otis Redding in un’intervista per la rivista statunitense “Rolling Stone”: “Questo perché le ho inventate io”. A proposito di quella sessione, il chitarrista Steve Cropper aggiunse: "Se ascolti la registrazione puoi a malapena capire le parole. Io mi misi davanti a un giradischi, trascrissi quello che pensavo fosse il testo del pezzo originale e lo consegnai a Otis. Ma lui buttò via il foglio con i testi e inventò sul momento”.
Allo stesso modo, la sua versione di “Rock me baby”, standard blues di B.B. King, divenne un’esplosione di energia capace di rivendicare il legame profondo tra blues e soul.

Con in copertina una foto d'archivio di una donna bionda, dalla pelle candida, di cui non si è mai conosciuta ufficialmente l’identità (anche se alcuni, a partire dal fotografo che realizzò lo scatto, Peter Sahula, ipotizzano fosse la modella tedesca Dagmar Dreger), “Otis blue” uscì appena due mesi dopo la registrazione, pubblicato dalla Volt negli USA e dalla Atlantic nel Regno Unito. Seppur Oltreoceano l’album arrivò solo al numero 75 della classifica generale, il disco raggiunse la vetta nella sezione R&B e nel Regno Unito si spinse fino al numero 6, registrando un risultato straordinario per un album soul in quel preciso momento storico. Quattro singoli estratti da “Otis blue”, entrarono addirittura nella Billboard Hot 100: “I’ve been loving you too long” si piazzò alla posizione numero 21, mentre “Satisfaction” e “Shake” raggiunsero rispettivamente il 31esimo e il 47esimo posto. La versione di Otis Redding di “My girl” uscì come singolo solo nel Regno Unito, dove raggiunse l’undicesima posizione nella UK Singles Chart. Il successo del disco trasformò Redding in una vera star, e oggi resta uno degli album fondamentali degli anni Sessanta. Seppur al giorno d’oggi possa sembrare strano trovare tante cover in un disco storico di un artista titanico, come spiegò anche Rob Bowman nel 2015 a “Clash Music”, “nel 1965, gli artisti neri soprattutto – ma anche più artisti bianchi di quanto si pensi – continuavano a pubblicare un numero significativo di cover. Molti non scrivevano affatto materiale proprio. Gli originali che incidevano erano scritti per loro da autori professionisti, neri o bianchi che fossero. I Beatles iniziarono a cambiare questa tendenza, ovviamente, e cominciarono a farlo già un paio d’anni prima. Ma è solo intorno al 1967, un paio d’anni dopo ‘Otis blue’, che si cominciarono a vedere artisti rock bianchi scrivere la maggior parte del proprio materiale, e ci volle un po’ più di tempo prima che anche numerosi artisti neri – che si trattasse di Stevie Wonder, Marvin Gaye, George Clinton o Isaac Hayes – emergessero come figure capaci di concepire album d’autore. Fu davvero intorno al 1969 che iniziarono a scrivere quasi tutto il proprio repertorio. Dunque, quando Otis incise ‘Otis blue’, era pratica comune costruire i dischi soprattutto su cover e sugli ultimi singoli di successo”.

"Otis blue", però, non era fatto solo di cover. Tre dei brani furono scritti da Otis Redding stesso, tra cui “Respect”, che gli regalò un successo in classifica (arrivando alla 35esima posizione della Billboard Hot 100) prima di diventare, due anni dopo, un inno definitivo con Aretha Franklin. Allo stesso modo, il brano d’apertura “Ole man trouble” anticipava già la malinconia che sarebbe esplosa in “(Sittin’ on) The dock of the bay”, lasciando intravedere una sensibilità nuova.
In "Otis blue", inoltre, tre canzoni ("Change gonna come", “Shake” e “Wonderful world”) appartenevano al repertorio di Sam Cooke - morto pochi mesi prima, l'11 dicembre 1964 - e che Redding le volle incidere come tributo, dando voce a un’eredità che il soul non poteva permettersi di perdere. Così, nelle undici tracce del disco, convivevano il dolore della perdita, la rabbia sociale e l’energia vitale di un artista in piena ascesa.

A contribuire al successo travolgente che investì Otis Redding e "Otis blue", fu ovviamente anche la band che accompagnò il musicista originario di Dawson, Georgia, durante le sessioni di registrazioni negli studi della Stax a Memphis tra il 9 e il 10 luglio 1965. Il gruppo era quello dei leggendari Booker T. & The M.G.’s, house band dell’etichetta, formati dal tastierista e leader Booker T. Jones, il chitarrista Steve Cropper, il bassista Donald “Duck” Dunn e il batterista Al Jackson Jr., con in più Isaac Hayes al pianoforte e una sezione fiati formata da membri dei Mar-Keys e dei Memphis Horns. Ripensando a come fu registrare "Otis blue" in 36 ore, in un'intervista concessa al "Guardian" nel 2013, Booker T. Jones raccontò: "È stato intenso. Redding era come se fosse posseduto. Nessuno era del tutto sicuro di cosa gli stesse succedendo. Sembrava semplicemente avere fretta. Non fretta – ossessione. E non capivamo perché. Ci siamo semplicemente lasciati trascinare. Se voleva andare avanti 24 ore di fila, lo facevamo".

Quell’urgenza febbrile, che portò Otis Redding e la band a completare il disco in 36 ore, con 10 delle 11 canzoni di "Otis blue" realizzate nelle prime 24 ore (tranne per la versione di “I’ve been loving you too long” incisa nell’aprile precedente), conferì al disco un senso di immediatezza, come se ogni canzone fosse stata cantata per la necessità di quel preciso momento storico. È per questa urgenza quindi che, sessant’anni dopo, “Otis blue” non ha perso rilevanza. In un’America segnata allora dalle lotte per i diritti civili, brani come “Respect” o "Change gonna come" nella rivisitazione del capolavoro di Sam Cooke, si trasformavano in inni impliciti a dignità e uguaglianza. Dopo il successo del disco, Otis Redding avrebbe pubblicato altri album di spessore, fino alla morte prematura avvenuta nel dicembre 1967, a soli 26 anni, in un incidente aereo nel Wisconsin. Con "Otis blue", però, la voce di Redding divenne universale, capace di parlare di amore e dolore, di rivalsa e speranza, lasciando ai posteri un disco che suona urgente e necessario ancora oggi, come un manifesto soul che resiste al tempo e come testimonianza di un artista troppo breve, ma eterno.

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